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[ fantasmi a pezzi ]
Claude Lantier - Verrà un giorno in cui una semplice carota, che un pittore avrà visto così con occhi da pittore, potrà provocare una rivoluzione.[1]
Dur. 08' 09"
Poiché non si tratta di essere un “pittore della vita moderna” ma un pittore moderno, occorre che sia moderno il modo della pittura di lavorare motivi di sempre, dall’apparenza eterna, immutabile, come il paesaggio, le cose della natura o il ritratto, che prendono tutti il pennello di Vincent come prendessero il treno per tornare alla loro origine e ricominciare la corsa.
Natura e cose vengono colte e raccolte nel riposo denso della materia che si spinge sempre oltre, senza però volerla superare…
Ma qualcuno nel taglio dell’orecchio non vede altro che l’amputazione, nella natura morta non altro che la morta natura - come se la mela bacata nel cesto di Caravaggio non dicesse al contrario il bagliore stesso della natura e della vita.[2]
“(Le scarpe di van Gogh) non ci appaiono come desolate, slacciate, nature morte, abbandonate, appunto, come è la vita stessa del pittore? Non è forse questa identificazione massima alla mortificazione inferta dal significante uno dei tratti più caratteristici della melanconia? Lo stato di abbandono delle scarpe non è lo stesso stato che van Gogh vive come un destino? Le scarpe non sono allora forse l’autoritratto di se stesso come oggetto-scarto, come piccolo oggetto (a), come un’esistenza sganciata, caduta dalla scena del Mondo?”...

... si è chiesto qualche esperto dell'anima.

Ma per Vincent, dove mai vedete l’abbandono, la mutilazione e l’urlo? 

E ora andrò all’attacco dei cipressi e della montagna. Credo che questo diventerà la parte centrale del lavoro  che ho fatto qua e là in Provenza; e allora potremmo chiudere il soggiorno qui, quando ci sembrerà opportuno. Il che non è urgente, perché Parigi in fondo mi distrae… Sì, c’è la possibilità di vedere il bello anche a Parigi. Ma insomma, i negozi di libri non sono delle lepri e perciò non scappano, e ho intenzione di lavorare ancora qui per un anno, e sarà la cosa più saggia.[3]

Sotto il quadro con la Bibbia Vincent aveva messo la Joie de vivre di Zola; sotto le ultime arlesiane ora mette i Racconti di Natale di Dickens... E in uno di questi dipinti (forse l'ultimo) solo il volune di Dickens si rivolge all'osservatore con il titolo leggibile come una didascalia dell'immagine stessa.
Forse così, con questo libro di un autore particolarmente amato, Vincent esprime a Gauguin anche un dolore per quel Natale dell’88, sciupato dal filo rilucente del suo rasoio d’incomprensione. 

Nel Sartor Resartus, che Gauguin aveva apparecchiato sul tavolo davanti a de Haan, Carlyle aveva scritto: “Tutte le cose visibili sono Emblemi; ciò che vedi non è lì senza ragione; a rigor di termini non è affatto lì; la Materia esiste solo spiritualmente e per rappresentare qualche Idea e incarnarlaIl linguaggio viene chiamato Veste del Pensiero; si dovrebbe piuttosto dire: il linguaggio è l'Abito di Carne, il Corpo del Pensiero. Le metafore sono la sua materia prima…"

Ma per van Gogh le cose non sono travestimenti sensibili di un’idea, non formano metafore o allegorie…[4]
E neppure i suoi quadri lo sono.
Si sono allontanati dall’astrazione e dal racconto, e hanno ritrovato la materia.[5]
E il lavoro.
Non vedete, signori, che nella pittura di van Gogh si può guardare ogni singolo movimento della mano, individuare la sua precisa posizione nello spazio reale, seguire la direzione che ha preso ogni singola pennellata, contare la fatica di ognuna e pesarne il colore?
I suoi quadri di sedie vuote forse prefigurano anche (nel motivo) uno svolgimento della pittura in direzione di quadri vuoti e (nella maniera) l’affermazione positiva della pittura stessa e del pittore come soggetto attivo che non vuole perdersi nel suo oggetto.
Ognuno dei suoi oltre 40 autoritratti dice: questo preciso quadro è stato fatto da quest’uomo per come lui sapeva fare questo preciso suo quadro (della situazione).

Decisamente, no.
Nei quadri di van Gogh non ci sono fantasmi del sé, ma pezzi veri del corpo:

les maroquineries de Sade.

 

[1] - Émile Zola, L’opera, cit.
[2] - Massimo Recalcati, Melanconia e creazione in Vincent van Gogh, cit. p. 106.
[3] - Vincent a  Theo, Saint-Rémy, 26 novembre 1889 (n. 823-615).
[4] - Come voleva il manifesto simbolista del 1886.
[5] - La “superba nudità cosale” intesa da Dino Formaggio (Van Gogh, cit., p. 155 e 179) ha forse una derivazione dalla cosa trattata da Heidegger nell’Origine? La prima edizione italiana dell’Origine (Chiodi) è del 1968; la prima edizione tedesca  di Holzwege è del 1950 (ed. Klostermann); appena due anni dopo, nel 1952, Formaggio avrebbe anche potuto essere a conoscenza della versione tedesca dell’Origine, ma anche pervenire autonomamente a questa idea di ‘nudità cosale’ attraverso la sua lettura diretta (e appassionata) della pittura di Vincent. “Guardate questa materia di Vincent, come essa sia creatura libera e viva, come già per se stessa valga plasticamente. Essa ha nel quadro una sua vita autonoma; si torce, poi scatta, saltella, come una cresta d’onda o come la curva di un seno. Essa vive di principi e leggi proprie, come il colore, in Vincent, come ogni creatura veramente vivente, veramente viva, nell’universo. La materia di Vincent non è semplice supporto di qualcos’altro, come avviene per gli idealisti e i simbolisti. Non vale per qualcosa d’altro, ma solo per se stessa… e come tale vibra, canta e si muove nella immediatezza ritmica del sentimento, danza fisicamente. Distesa in precise superfici, o piuttosto, come avviene nella maturità, martellata, intarsiata a gruppi di pennellate che determinano spessore e corsa ritmica, essa costituisce già per se stessa, ed indipendentemente dal colore, un’emozione, tenera come un’aria di primavera o potente e scabra come un muro, come un edificio. Ma questa forma ritimica della materia di Saint-Remy e di Auvers viene dal disegno (e dalla tecnica giapponese, in ultima analisi) e sostiene l’ossatura della forma. E’ essa che materialmente costruisce, nell’opera vangoghiana, quella che già una volta abbiamo definito la sua superba nudità cosale, cioè la sua assoluta libertà nel mondo come cosa, come oggetto che ha una sua intera vita naturale ed una sua storia compiuta” (D. Formaggio, cit. p. 179).



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